L’INTERVISTA. L’autore di Sofia si veste sempre di nero (minimum fax, 2012) risponde alle domande degli studenti del Liceo artistico Argan di Roma e del Liceo classico Socrate di Roma.
L’intervista a cura del Liceo classico Socrate di Roma
Il libro è nato da un’esperienza personale o è frutto della fantasia?
Ricordi e fantasia si intrecciano sempre nella narrativa. Sofia non esiste davvero ma è nata da alcune ragazze che ho conosciuto, ha elementi di persone diverse e perfino qualcuno di me. E così le sue storie: nessuna è realmente accaduta né del tutto inventata.
Perché ha dato come denominatore comune a tutti i personaggi un forte senso di solitudine?
Non è stata una scelta volontaria. Immagino sia il modo in cui vedo la vita degli adulti. Da bambina Sofia non si sente sola: ha sua madre, Oscar, il cane Mozzo. Diventare adulta per lei significa scoprire la solitudine e farci i conti (in effetti era la sua più grande paura infantile). Però la sua solitudine ha delle pause, dei momenti di condivisione profonda, con Marta, con Caterina, con Pietro. Relazioni intense e purtroppo brevi, ma questa è tutta colpa sua.
Perché ha deciso di dividere il libro in sezioni autonome?
Ho sempre letto e scritto racconti. I lettori di racconti sono una razza un po’ strana, come i lettori di poesie. E così gli scrittori. Ce ne sono alcuni (penso a Grace Paley, Raymond Carver, Alice Munro) che in vita loro hanno scritto soltanto racconti. Io mi sento di quella razza, però volevo provare a costruire un personaggio complesso come Sofia, che è un personaggio da romanzo. Allora ho pensato a questa struttura del “romanzo di racconti”, che naturalmente non ho inventato io. Ne esistono tanti altri esempi.
Quando scrive ha presente qualche modello letterario specifico?
Sì, sempre. Non riesco a cominciare un racconto se non ho in mente un modello (ma più spesso sono diversi), qualche altro racconto che amo molto e che provo a copiare. Poi il processo di scrittura è lungo, io ci metto parecchi mesi a finirne uno. In quel tempo, se tutto va bene, un po’ alla volta mi distacco dal modello originario e vado per conto mio. A volte alla fine puoi ancora riconoscerlo, altre volte ne è rimasto davvero poco.
Il libro può essere interpretato come denuncia della società italiana degli anni ’60?
“Denuncia” in che senso? Più che denunciare, a me interessa raccontare. Una denuncia sottintende un giudizio morale che è molto pericoloso per uno scrittore di narrativa, significa porsi al di sopra dei tuoi personaggi e giudicarli. Invece a me piace scrivere guardando il mondo dal loro livello. Però in Sofia gli anni ’60 non ci sono per niente, c’è la fine degli anni ’70. Sono due epoche molto diverse. Uno spartiacque per nulla simbolico è la bomba di piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre del ’69: prima ci sono stati anni di fermento culturale e politico, poi è cominciata la stagione delle stragi e della lotta armata. Se vi interessa questa storia c’è un libro molto bello, “L’orda d’oro” di Nanni Balestrini e Primo Moroni, che secondo me la racconta bene.
La fuga finale di Sofia rappresenta una resa alla sua impossibilità di stringere legami o è un indice di speranza?
Secondo me è una resa. Sofia ha imparato a conoscersi, ormai sa come funziona per lei. È una persona che consuma le relazioni, non riesce a coltivarle nel tempo. E che scappa appena sente puzza di bruciato per ricominciare da un’altra parte.
Ci è parso che la figura del pirata rappresenti la ribellione. Perché ha scelto proprio la figura del pirata?
Mi sono appassionato alla pirateria avvicinandomi al pensiero anarchico. Di certo c’è la ribellione, ma un pirata non può mica ribellarsi da solo. È la nave pirata che mi affascinava soprattutto, come modello di ribellione collettiva e di piccola società libertaria (c’è del romanticismo in tutto questo, lo ammetto: la vita dei pirati era anche molto violenta). T.A.Z. di Hakim Bey – un libro importante per la mia generazione, che anche Sofia legge verso i vent’anni – parlava proprio di pirati, centri sociali e zone di libertà temporanea. Un altro bel libro sull’argomento è “Canaglie di tutto il mondo unitevi”, di Marcus Rediker.
Le piacerebbe che realizzassero un film sul suo libro?
Sì, molto. Di un libro con una struttura simile, “Il tempo è un bastardo” di Jennifer Egan, hanno fatto una serie televisiva. Secondo me anche Sofia si presta più alla serie che al singolo film.
Qual è secondo lei la funzione della letteratura al giorno d’oggi?
Le storie ci parlano dell’essere umano, di com’è vivere su questa terra. Ci parlano degli altri e di noi. Ci sono cose di me, della mia vita, cose delle persone che amo che capisco meglio perché ho letto i libri che ho letto, racconti e romanzi, storie di fantasia. Questa mi sembra essere l’intima funzione della narrativa, il bisogno che abbiamo di leggere e scrivere storie. L’altra è che mi sento meno solo quando leggo i miei scrittori preferiti, è come avere degli amici che mi danno una mano ad andare avanti.
L’ntervista a cura del Liceo artistico Argan di Roma
Lo stile, il punto di vista, i tempi di narrazione variano nel susseguirsi delle pagine, quale è il motivo della scelta di questo particolare stile narrativo?
Carver diceva che lui si annoiava in fretta, per questo scriveva solo racconti e poesie. È un po’ così anche per me. Faccio fatica a leggere romanzi, a meno che non siano davvero dei capolavori. E anche quando scrivo non riesco a mantenere uno stile per troppe pagine: ho bisogno di provare cose diverse, la prima persona, la terza, il passato e il presente, per tenere alta la tensione (la mia, e poi spero anche quella del lettore).
Spesso ognuno di noi si riconosce nei personaggi delle storie che legge. Lei in quale personaggio del suo libro si identifica?
In Pietro perché è un po’ il mio autoritratto. In Roberto perché è un uomo doppio, appassionato delle cose che fa eppure incline al compromesso, e devo ammettere che sono così anch’io. Negli eroi del libro come Oscar e Marta non mi riconosco. In Rossana, attratta dall’orizzontalità, sì. E soprattutto mi riconosco in Sofia che è una specie di me ideale, un po’ come sono, un po’ come vorrei essere.
Avendo lasciato in sospeso il finale del libro, intende proseguire il racconto in un altro romanzo?
Perché in sospeso? Tutto è in sospeso fino a quando uno non muore. Infatti Sofia nell’ultimo racconto si rifiuta di morire, dice che non è giusto chiudere una storia così. È un narratore autoritario (questo lo diceva Grace Paley) quello che stabilisce il destino dei suoi personaggi. Per me la storia di Sofia (anzi non la sua storia, il pezzo che posso raccontarne io) finisce con lei che gira l’angolo e se ne va. Poi l’ho persa di vista. Ma se vi fate questa domanda significa che la sua vita continua anche dopo, e io ne sono molto contento.
Come è nata l’idea del personaggio di Sofia? Voleva rappresentare un aspetto del mondo femminile?
No, volevo raccontare una persona. Mi chiedono spesso, e mi dà un po’ fastidio, perché ho raccontato una donna e non un uomo. Ma porca miseria, il mondo mica si divide in maschi e femmine! Che cos’è esattamente il “mondo femminile”? Io sono molto simile a Sofia, in parte ho raccontato lei per raccontare me: siamo coetanei, siamo cresciuti nella stessa città, abbiamo conosciuto le stesse persone. Incidentalmente lei è una ragazza.
Pensa che questo romanzo possa aiutare noi ragazzi ad avere una visione più ampia della realtà che ci circonda?
Questo lo chiedo io a voi. Vi ha raccontato qualcosa di nuovo del mondo?