Intervista a Helena Janeczek

Helena Janeczek

L’INTERVISTA. L’autrice di Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010) risponde alle domande degli studenti del Liceo classico Alessandro Lombardi, Airola (Benevento).

Per quanto concerne la lingua e lo stile, quali sono secondo lei le differenze tra una scrittura al maschile (scrittore) ed una al femminile (scrittrice), qualora ritenga che ve ne siano?

No, in realtà non ritengo che una distinzione di questo tipo abbia senso. Si pensa che nei libri scritti da donne predomini l’elemento emotivo o addirittura viscerale e che la lingua sia di conseguenza più tendente alle metafore o altri stilemi che denotano una forte soggettività, perché spesso è così, in effetti. Ma ci sono anche Patricia Cornwell o Patricia Highsmith, la maestra del psycho-thriller, o Marguerite Yourcenar con Le memorie di Adriano e persino i romanzi di una delle prime grandi scrittrici come Jane Austen non hanno nulla di “femminile” a livello stilistico, ma anzi una lingua estremamente composta e misurata. Le donne sono diverse e quindi scrivono in modo diverso: come pure gli uomini, ma nel caso loro questo sembra più normale.

Perché nel romanzo ci sono (in proporzione) poche sequenze descrittive ed introspettive, mentre abbondano quelle narrative?

Perché è un romanzo corale che va dietro a tante storie e tante vite e si prefigge soprattutto di mettere insieme questa sorta di mosaico con alcune tessere mancanti. C’è spazio anche per le descrizioni e per le pagine introspettive che credo siano talvolta assai significative, ma devono sottostare all’economia del tutto.

Talvolta, leggendo il romanzo, si ha l’impressione che la verità non sia un elemento indispensabile o che la realtà non sia altro che menzogna. Può esistere, secondo lei, una verità fatta di menzogne?

No, anzi la verità non viene mai messa in discussione: anche se deve essere scovata, ricercata. Può presentarsi anche sotto le spoglie della menzogna, perché con la menzogna gli uomini talvolta proteggono qualcosa di importante e vitale. Di vero, in altre parole. Chiaramente non tutte le menzogne sono maschere del vero. Ma mentre  un saggio storico non può includere qualcosa del genere nella ricostruzione della verità storica, il racconto letterario ha invece questa possibilità di calarsi profondamente nell’anima dei singoli e quindi mostrare anche la verità mascherata di menzogna. É una grande forza che le rimane.

Non si sente messa a nudo dopo aver scritto un’opera così personale?

Capisco la vostra domanda, ma non credo di aver raccontato cose davvero tanto personali. Mi sono messa in gioco, ho mostrato di essere coinvolta profondamente per quanto su di me è ricaduto di una catastrofe come la guerra e la Shoah, ma è il riflesso personale di una storia collettiva. E poi tutti noi abbiamo padri e madri, tutti condividiamo l’esperienza del lutto, dell’amore, dei sentimenti più importanti. Racconto di me stessa sulla base di sapermi in fondo uguale agli altri. Altrimenti non sarebbe comunicare, “mettere in comune”, e non avrebbe senso.

A nostro parere il lavoro dell’editor spesso mortifica quello dell’autore in nome di gusti commerciali e regole di mercato. Cosa ne pensa?

Gli editing vengono fatti a seconda di quel che il testo richiede. Se si tratta di un romanzo commerciale, per esempio un thriller, bisogna lavorare perché sia costruito come si deve. Ma nessuno cerca di far diventare qualcos’altro un romanzo letterario, che si pone come tale senza equivoci. Almeno a me, che ho scritto solo libri parecchio “fuori norma” non è mai capitato di ricevere osservazioni diverse che quelle che, in effetti, servivano a migliorare il mio lavoro.

Lei definisce il suo romanzo un’opera epica: a proposito di ciò, le prime parole dell’Iliade (ira) e dell’Odissea (uomo) danno da subito e volutamente l’idea dei contenuti, dell’atmosfera e del messaggio. Le prime parole del suo romanzo sono mio padre, l’ultima è menzogna: è un caso?

Non sono stata io a definire il mio romanzo epico. É stata la maggioranza dei critici, ma qualcuno come Andrea Cortellessa sostiene che in realtà sia “anti-epico”. Credo però che l’epica giocoforza c’entri con il tema della guerra. Suppongo che non siano casuali la prima e ultima parola anche se si sono presentate senza calcolo. É un libro scritto nel nome del padre (e anche del figlio come ribadisce la dedica). Il tema della menzogna è importante, ma non lo sono meno altre parole dell’ultima frase: verità, appunto. O pietà.

Qual è stata la sua sensazione dopo aver terminato il romanzo?

Grande sospiro di sollievo. Leggerezza. E poi la testa che dice: fantastico ho finito, domani vado a fare la spesa, pago le bollette in arretrato, metto a posto ecc…

Alessandro Baricco scrisse che, finché l’uomo non susciterà un’altra bellezza, ci saranno sempre guerre dalla cui bellezza ci sentiremo attratti. Esiste, secondo lei, e qual è questa bellezza che sostituirà quella della guerra?

Credo che ci sentiamo attratti dalla guerra perché ci mostra qualcosa di essenziale su come siamo fatti, nel male e anche nel bene.  Per questo la raccontiamo. Il compianto di Achille per Patroclo è bello perché ci restituisce la grandezza di un dolore e quindi di un affetto, ma in sé non ha nulla di bello. Non c’è nulla di bello nella morte di Ettore e nel vilipendio del suo cadavere salvo darci la misura della sua forza d’animo. La bellezza mostrata dai racconti di guerra per me è sempre quella dell’umanità che vi resiste. Quindi qualcosa che può essere trovato anche altrove senza bisogno di cercare un “sostituto” per i tempi di pace (che poi è sempre relativa).

Leggendo il suo libro, abbiamo avuto l’impressione che scrivere per lei sia una specie di lotta, una violenza di una mano che ti afferra la nuca e ti cinghia alla sedia, che non c’è niente di blando o carezzevole, una lotta a mani nude di chi si sottrae al mondo. Ci parli brevemente dell’ “atto” del suo scrivere, di quella discesa in miniera da cui si risale diversi o si muore.

Scrivere per me in realtà non è una lotta, ma un’immersione, uno scavo (discesa in miniera, d’accordo). Dentro di me o fuori di me, nelle storie sulle cui tracce mi metto, scoprendo spesso cose incredibili, mai immaginate. É quindi un viaggio di scoperta e anche, a modo suo, d’avventura, molto ma molto più appassionante e gratificante che foriero di sofferenza. Faticoso sì, ma bello.

Nelle sue pagine ci siamo, per contrasto, anche noi ragazzi, tutte le volte in cui non siamo capaci di essere artisti del ricordo o lo roviniamo, offendendolo, desacralizzandolo quasi sempre per paura. Cosa pensa dei giovani del nostro tempo, che ogni mattina siedono nei banchi di scuola, che non vengono emotivamente aiutati a ricordare né educati o iniziati all’arte del ricordo ed alla ricerca dell’identità? Perché non si insegna loro che la vita rinasce dalla memoria, che dobbiamo imparare a fare i conti con il nostro passato, che talvolta occorre distruggere per poter ricostruire, che nei viaggi spesso troviamo quello che non cerchiamo e che ci sfugge ciò che, invece, pensavamo di trovare? Forse perché i docenti non sanno farlo o non ne sono capaci?

Perché è davvero difficile insegnarlo, come voi sapete bene. Perché quella ricerca vale, se uno la fa da solo, magari andando pure per granchi, ma non può essere trasmessa come una materia da apprendere. Perché siete immersi in tanto presente che agli adulti spesso sembra che per voi non conti altro; quindi si perdono d’animo nel tentativo di raggiungervi o semplicemente non sanno come fare. É più o meno quel che ho provato a indagare con la storia di Edo e di Andy: raccontare due ragazzi che devono ridefinirsi punto a capo rispetto alle loro tradizioni familiari. E che in modo obliquo, lo faranno. A qualcuno è sembrato non all’altezza delle altre parti più drammatiche, ma per me era una sfida proprio per questo. Mi fa piacere che a voi – come anche a altri vostri coetanei che hanno letto il libro – sembra invece essere “arrivato” qualcosa delle mie intenzioni. Perché l’importante era provarci…

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