Intervista a Giusi Marchetta

Giusi Marchetta

L’INTERVISTA. La scrittrice Giusi Marchetta, autrice de L’iguana non vuole (Rizzoli, 2011) risponde alle domande degli studenti del Liceo classico Plauto di Roma.

Secondo la sua esperienza personale da insegnante di sostegno, nonostante le numerose difficoltà che emergono dalla lettura del libro, è possibile, e se sì come, superare la discriminazione nei confronti dei ragazzi disabili nelle scuole pubbliche?

A mio parere applicare le leggi esistenti sarebbe già un egregio punto di partenza. L’integrazione è un obiettivo da raggiungere lavorando sulla mentalità delle persone, educando alla diversità e al rispetto degli altri fin dalla più tenera età. É ovvio quindi che a parte la scuola, il ruolo della famiglia diventa fondamentale per la coltivazione di una sana intelligenza emotiva.

Secondo lei il forte divario tra nord e sud in Italia, si riflette in maniera determinante sul rapporto tra insegnanti e alunni?

No non credo. Credo che il forte divario tra nord e sud sia un problema politico e che il precariato scolastico ne denunci l’esistenza in modo chiaro ed evidente a tutti. Il rapporto tra insegnanti e alunni, ottimo o pessimo che sia, è  determinato da altri fattori.

“La torre trema, a volte, sempre”. La torre rappresenta soltanto l’instabilità della protagonista o allude anche alla crisi della società?

La “torre” è il modo in cui si vede Tommaso, la sua condizione instabile dovuta alla malattia. Assistere alle scosse della torre, cioè alle manifestazioni di psicosi del ragazzo scuote profondamente Emma e la rende insicura. Nel corso del libro però direi che questo vivere traballante rappresenti anche molto la condizione dei personaggi sani, ma che sono stati privati di punti di riferimento dal posto di lavoro alla famiglia. Insomma, la crisi ci rende insicuri, instabili, ci ammala.

Da cosa è scaturita la paura di Emma rappresentata dalla visione dei serpenti, prima da bambina e poi da adulta?

Emma è una persona razionale, determinata e che ha sempre pensato che lavorando e impegnandosi avrebbe ottenuto quello che meritava. Come un bel voto per un buon compito. Solo che la sua vita non è così. Ha trovato l’amore e l’ha perso; si è specializzata, ma non può insegnare. Si vede vivere lontana da casa, sopravvivere.  Questo la spaventa perché non sa come agire. Se hai fatto tutto per bene e ti ritrovi con niente in mano cosa dovresti fare ancora per uscirne? E c’è davvero qualcosa da fare?

Le angosce rappresentate dai serpenti durante la giovinezza, sono legate all’autorità del padre; durante l’età adulta i serpenti ritornano quando si presenta Gianni; è possibile che anche lui, come il padre, ricopra una figura autoritaria?

Più che una figura autoritaria io credo rappresenti una strada.  Gianni è il bene, la persona che si impegna nonostante tutto, che cerca di ritagliarsi un dimensione e un posto nel mondo combattendo le difficoltà che incontra, senza rassegnarsi all’instabilità e al precariato. É in un certo senso come il padre di Emma, ma nella versione 2011.

Ogni giorno tantissimi studenti laureati cercano di entrare nel mondo della scuola pubblica e del lavoro in generale ma, a causa della disoccupazione che colpisce soprattutto il centro e il sud Italia, sono costretti a dover abbandonare tutti i loro affetti; nel caso di Emma, il trasferimento dalla città natale influisce, oltre che nella sua vita affettiva, anche nel modo in cui affronta quella lavorativa?

Quando scrivevo il libro mi immaginavo Emma alle prese con Andrea, un ragazzo torinese, in una scuola torinese. E sentivo che una parte di lei, frustrata dalla sconfitta e dalla difficoltà dell’impresa, pensava che tutto sommato a lei non importava. Che il lavoro fatto avrebbe dato semi che lei non avrebbe visto germogliare e che comunque non le appartenevano. Il lavoro di Emma non ricade sulla sua città. Lei non è rimasta per migliorare le cose nella sua città. Si impegna lo stesso, certo. Questo pensiero può occupare la sua mente un minuto prima di sparire. Ma c’è ed è brutto.

Perché ha scelto proprio la figura dell’iguana come totem del bambino e simbolo di giustizia?

Non è stata una scelta. Sono incappata in un’iguana reale che era il totem di un qualcuno molto importante per me. E lui, generosamente, me l’ha regalata.

Secondo la sua esperienza personale cosa consiglia ai giovani che stanno entrando nel mondo del lavoro per affrontare con coraggio la paura del futuro?

Il mio modesto consiglio è di non risparmiarsi. Di studiare tanto, di lavorare molto, di capire presto quali sono le loro potenzialità e di sfruttarle al massimo. Di non aver paura di allontanarsi e di soffrire. E soprattutto di cercare il più possibile di conservare intatta la propria dignità: il primo modo per farlo è di non fare le scarpe a nessun altro. Al contrario, collaborate: uniti ci si sente e si è davvero più forti.

Ritiene, attraverso la sua testimonianza di aver suscitato un forte senso di consapevolezza della società attuale nei lettori?

No, non credo. Chi vive situazioni vicine a quelle del libro potrebbe essersi immedesimato nei personaggi, qualcun altro avrà avuto modo di confrontarsi con una storia calata nell’Italia di oggi. Ma il libro non cerca di suscitare consapevolezza, racconta una storia che per l’Autore ha una rilevanza. In questo senso il lettore non è qualcuno da guadagnare a una causa, ma una scommessa che ci si augura di vincere.

È possibile interpretare il rapporto tra la formazione teorica di Emma e la sua applicazione pratica, come un chiasmo in cui gli insegnamenti di Biagini e la loro fallimentare applicazione nel caso di Tommaso, si contrappongono alla vittoria con Andrea, resa possibile dalla fusione delle componenti teorica e pratica, attraverso Emma che, termine medio del nostro chiasmo, rappresenta l’esperienza?

É un’interpretazione interessante, sicuramente rispecchia il mio pensiero sul processo pedagogico. L’esperienza che tenta e impara da se stessa non basta: ci vuole una preparazione teorica per insegnare ed educare, per mettersi in relazione con un altro da formare. Certo, la teoria che non incontra i ragazzi in carne ed ossa è pura retorica. É un mestiere difficile davvero, il nostro. Ma è bello, credetemi, uno dei migliori.


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